Ci vorrebbe il ping pong
Gli Stati Uniti sono passati dal «Make America Great Again» di Trump al «Buy American» di Biden. La differenza non si nota ancora Ma sarà cruciale il modo di porsi con il colosso guidato da Xi Jinping.
di Alessandro Minuto Rizzo
La realtà corre più veloce dei libri che la descrivono. Abbiamo visto eventi epocali che sembravano risolutivi, ma che sono stati subito smentiti. Famoso è il commento dello Fukuyama, che alla conclusione della Guerra Fredda scrisse che eravamo alla fine della storia. L’attacco alle due torri di New York ci fece vedere come avesse torto. Fu seguito da alcuni anni in cui sembrava che gli Usa dominassero il mondo incontrastati, esportando liberalismo e globalizzazione economica.
Da qualche tempo si è aperto un nuovo capitolo che coincide con la rapida ascesa della Cina e che fa scrivere che siamo entrati in un secolo asiatico. L’Amministrazione Trump ha dato priorità a questa realtà criticando il modello cinese di crescita e soprattutto di export. Indicando a tutti che la Cina gode di vantaggi comparativi basati su bassi prezzi, sovvenzioni statali e concorrenza sleale. Da qui una rincorsa di dazi e contro-dazi creando un clima di ansietà e nervosismo politico. In campagna elettorale il presidente ha evidenziato più volte i problemi che Pechino causa all’economia americana, compresa la perdita di posti di lavoro. La prima domanda da porsi è come mai questi problemi, così seri, sono insorti negli ultimi anni.
Conviene quindi fare un passo indietro per capire meglio. Senza entrare nel travaglio della Cina dopo la guerra civile, è istruttivo il libro che Tiziano Terzani scrisse negli anni 80 sul Paese dove era corrispondente prima di essere espulso. Ne emerge un grande interesse per la plurisecolare cultura cinese. Ma anche una critica di fondo alla gestione politica del Partito Comunista e al sottosviluppo del Paese, che viveva in povertà. Molta acqua è passata sotto i ponti e da allora lo sviluppo cinese è stato molto rapido, con tassi annuali di aumento del pil che hanno sfiorato le due cifre in modo continuativo.
Però lo sviluppo economico non dice tutto. In parallelo è cambiata l’immagine che la Cina vuole dare di sé. Deng Xiaoping, colui che ordinò nel 1989 la repressione di piazza Tiananmen, prima di ritirarsi dalla vita politica lasciò un messaggio molto esplicito sulla strada da seguire nelle questioni internazionali: «Nascondete la vostra forza, prendete tempo». Aggiungendo che la Cina dovrebbe «essere contenuta, guardare agli eventi in modo freddo e attento, mantenere principi politici, preservare la forza, essere paziente e non correre per mostrare una preminenza».
Parole chiare che mostrano una linea da Paese in via di sviluppo che non ha come priorità di essere leader nel mondo ma consolidarsi dal punto di vista economico e sociale. In effetti fino a pochi anni fa la politica cinese è stata molto controllata, tenendo un basso profilo in campo internazionale e specialmente verso gli Stati Uniti. Ricordiamo che l’Occidente favorì l’entrata del Paese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ritenendo che ciò avrebbe aiutato l’economia cinese a far parte del sistema commerciale internazionale acquistando dimestichezza con le leggi del mercato. Lo stesso Clinton si espresse in questo senso.
Con l’avvento al potere di Xi Jinping, nel 2013, i toni sono cambiati. Gli attacchi del presidente Trump al sistema politico e al «virus cinese» hanno avuto come conseguenza una risposta retorica che non si è tirata indietro su nessun argomento. Ad esempio, Hu Xijin, direttore del Global Times, ha usato spesso i tweet per rispondere a Pompeo e a Trump, definendolo anche come «il più stupido presidente che gli Usa abbiano mai avuto».
Che questo non sia occasionale è mostrato da una nota del dicembre scorso da parte dell’agenzia di stampa ufficiale Xinqua. Vi si dice che «ci sono degli ingenui i quali credono che sia conveniente fare compromessi e che, se la Cina non risponde alle critiche, si può stare in pace e tranquilli». La nota conclude: «Questo è un argomento assurdo che manca di coraggio e di integrità».
Del resto l’intervento al Summit (virtuale) di Davos nei giorni scorsi da parte di Xi Jinping ha mostrato un leader sicuro di sé, al vertice di una grande potenza, che non esita a criticare «l’arroganza» dei critici della Cina e ribadisce l’intenzione di controbattere ogni possibile minaccia dei suoi interessi nazionali.
Da qui dove si andrà? Risulta chiaro che la linea di Biden verso la Cina non sarà molto diversa da quella del predecessore, almeno nella sostanza. Certo, le forme saranno probabilmente diverse e non possiamo sapere come si svilupperà questo rapporto, che si preannuncia delicato e significativo per i futuri equilibri mondiali. È probabile che da una parte egli guardi ai problemi commerciali pendenti e dall’altra cerchi di aprire con Pechino un dialogo dai toni più distensivi. Trump usò lo slogan «America First». Biden è molto più multilaterale, ma non certo debole nel difendere gli interessi nazionali e sta usando lo slogan «Buy American» come direttiva per il futuro.
In ogni caso l’atteggiamento dell’Europa sarà di grande rilievo. Il 31 dicembre l’Unione Europea ha concluso con la Cina un accordo-quadro dopo anni di negoziato, di cui non è chiara la portata effettiva. Comunque da un punto di vista europeo non mancano gli elementi di dissenso e critica verso la Cina, dai diritti umani alla repressione delle minoranze, dall’annullamento delle autonomie concesse per trattato a Hong-Kong all’opacità esistente nei diritti dei lavoratori.
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di Alessandro Minuto Rizzo
Articolo tratto da “Milano Finanza” del 30/01/2021