Criptovalute, stop di Pechino Rischio caos dopo Evergrande
di Rita Fatiguso
Nel giorno del silenzio tombale di Evergrande sul mancato pagamento, giovedì scorso, della cedola da 84 milioni di dollari sul debito offshore, davanti al crollo a spirale del titolo in borsa a Hong Kong (-11,61%, ai minimi intraday) e agli enti locali già in preallarme, la Banca centrale cinese ha stabilizzato il mercato con una nuova, pesante, iniezione di liquidità da 71 miliardi di dollari.
La terza in una settimana, ma l’Istituto non perde tempo e vieta anche l’utilizzo di qualsiasi cryptovaluta specie nei trasferimenti cross-border, per evitare che l’hot money trovi una via di fuga nella blockchain. Qualche settimana fa si è verificato a Hong Kong il primo arresto per contrabbando di cryptovaluta.
Il panico inizia a serpeggiare, per questa ragione è il momento della discesa in campo di chi ha in mano il pallino del credito. Interviene con parole rassicuranti la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, che conosce a fondo il mondo della finanza cinese, avendo tra l’altro gestito da direttore dell’FMI la complessa trattativa per l’inserimento dello yuan nel paniere delle valute dei Diritti speciali di prelievo (SDR). «Stiamo monitorando la crisi del debito di Evergrande – ha detto ieri Christine Lagarde – ma in Europa e nell’area dell’euro in particolare, l’esposizione diretta sarebbe limitata, ho avuto un briefing sul tema perché penso che tutti i mercati finanziari siano interconnessi. Ho ricordi molto vividi degli ultimi sviluppi del mercato azionario in Cina che hanno avuto un impatto in tutto il mondo. Ma in Europa e nell’area dell’euro in particolare, l’esposizione diretta sarebbe limitata».
L’allusione è al crollo delle borse cinesi nell’agosto di sei anni fa che mandò in fumo in poche ore 5 trilioni di dollari nella finanza globale, pur essendo la Cina non ancora aperta ai mercati internazionali e per giunta con una moneta, lo yuan, non convertibile.
L’Eurozona, in generale, è però esposta nei confronti della Cina almeno quattro volte più di quanto non sembri ufficialmente, a causa del meccanismo perverso dei paradisi fiscali che le società cinesi hanno utilizzato finora per attirare capitali, e la capogruppo di Evergrande, non va dimenticato, ha sede nelle isole Cayman. Sistemi complessi che potrebbero portare, nella peggiore delle ipotesi, a cortocircuiti dagli effetti imprevedibili.
Per il momento almeno gettano acqua sul fuoco anche Credit Suisse, tra i principali sottoscrittori di vecchia data del debito Evergrande, secondo cui «i fondi della sua unità di gestione patrimoniale non detengono gran parte del debito del real estate developer». Per l’ad di UBS Ralph Hamers il rischio è «immateriale» e «limitato all’esecuzione di richieste di garanzie sui prestiti a margine». Noel Quinn di HSBC Holdings Plc ha detto di «non essere preoccupato» per i collegamenti diretti della banca con il settore immobiliare cinese.
Cercano di tranquillizzare gli animi le stesse banche cinesi, da Zheshang Bank (588 milioni di dollari di Evergrande in portafoglio) che sostiene di «avere sufficienti collaterali per far fronte alla situazione», la Shanghai Pudong Development Bank che parla di «debito ridotto legato a specifici progetti assicurati da diritti sulla terra». La Pudong bank, dal canto suo, ha confermato di essere in «comunicazione diretta» con Evergrande. Changshu Rural Commercial Bank (600 milioni) dice di essere garantita anch’essa da diritti sulla terra. No comment, invece, dal gigante ICBC, Industrial and Commercial Bank of China.
Tecnicamente, il default viene dichiarato trascorsi 30 giorni dal mancato pagamento, ma è un dato di fatto: alle banche e alle autorità locali è stato chiesto di prepararsi al peggio. Pechino non verrà in soccorso del gigante immobiliare indebitato per 300 miliardi di dollari, in un mercato obbligazionario asiatico che ne vale 400, giusto per fare un raffronto immediato.
Intanto il bond offshore Evergrande che scade nel 2022, ieri era scambiata a 0,33 centesimi di dollaro. Il mercato immobiliare si sta raffreddando, nove terreni su dieci ad Hangzhou, sede del gruppo Alibaba, nel secondo lotto di offerte sono rimasti invenduti. L’orso inizierà ben presto a farsi largo tra i listini.
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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 25/09/2021