Gli “affari di famiglia” richiedono competenza
Negli ultimi dieci anni le imprese familiari hanno aumentato l’apertura dei ruoli manageriali, compresi quelli di vertice, a figure esterne: un cambio di passo per affrontare con maggiore competitività i mercati
di Guido Corbetta – Professore Aidaf-EY di Strategia delle imprese familiari, Università Bocconi
Non c’è nessuna ragione per ritenere che un o una familiare non possa svolgere adeguatamente ruoli manageriali all’interno della propria azienda. Ci sono moltissimi casi in cui questo avviene con risultati più che positivi. Nello stesso tempo, però, si deve riconoscere che per rafforzare il portafoglio di competenze delle aziende la selezione di nuovi e nuove manager andrebbe condotta considerando sempre candidati e candidate sia familiari che non familiari. Cerchiamo prima di tutto di capire se la presenza di manager non familiari sia diffusa o meno nelle imprese familiari italiane. In una recente ricerca svolta da Aidaf, Unicredit e Università Bocconi su un campione di oltre 150 imprese familiari, alla domanda “Quale percentuale di manager non familiari sono presenti nel vostro team manageriale?” le risposte hanno portato ai seguenti risultati:
- nel 17% dei casi tutti i manager sono non familiari
- nel 34% dei casi i manager non familiari rappresentano più del 75% del team manageriale totale
- nel 22% dei casi i manager non familiari rappresentano tra il 50 e il 75% del team manageriale totale
- nel 27% dei casi i manager non familiari rappresentano la minoranza del team manageriale.
Utilizzando i dati sulla intera popolazione delle imprese familiari italiane con ricavi superiori a 20 milioni di euro raccolti dall’Osservatorio Aub (sostenuto da Aidaf, Fondazione Angelini, Unicredit, Università Bocconi) si osserva che dal 2010 al 2020 la percentuale di imprese familiari dove il ruolo di leader (amministratore delegato o direttore generale) è ricoperto da manager non componenti della famiglia proprietaria è salita dal 18% al 24% nelle imprese con ricavi tra i 20 e i 50 milioni di euro e dal 24% al 32% nelle imprese con ricavi superiori a 50 milioni di euro. Da questi pochi dati si possono trarre almeno due conclusioni. Primo: il 73% delle imprese familiari, almeno tra quelle non piccolissime, sono dotate di team manageriali con una maggioranza di non familiari. Secondo: negli ultimi 10 anni le imprese familiari hanno aumentato in misura non marginale anche l’apertura dei ruoli di vertice. Quindi, la presenza di manager non familiari nelle imprese familiari italiane è diffusa e in crescita. Viene da chiedersi le ragioni di questo fenomeno. Penso che esso derivi dalla crescente complessità dei contesti geopolitici, competitivi e tecnologici con conseguente aumento della necessità di far fronte a più forti pressioni competitive. Un manager non familiare può apportare all’azienda competenze, esperienze, relazioni delle quali essa non dispone. Un manager non familiare può rafforzare i processi decisionali favorendone anche la formalizzazione (piani, budget, sistemi di controllo,…). Un manager non familiare può diventare utile anche per ridurre il grado di emotività che talvolta è presente nelle imprese familiari quando si tratta di relazioni tra familiari della stessa generazione o di generazioni diverse. È inevitabile che qualche processo di inserimento di manager dall’esterno non funzioni. L’insuccesso di una selezione non è però un buon motivo per interrompere un processo di managerializzazione. Imparando da errori visti e anche compiuti, si possono richiamare alcune condizioni di successo pre-inserimento di manager non familiari che possono essere realizzate dagli imprenditori: essere consapevoli della necessità della delega a manager non familiari e identificarne con chiarezza lo spazio di autonomia; ricorrere a meccanismi di selezione professionali anche per non scegliere le persone solo su base soggettiva; valutare attentamente la compatibilità valoriale, ma apprezzare diversità ed eccellenza; offrire remunerazioni congrue, motivanti e correlate ai risultati aziendali; esplicitare dall’inizio le proprie attese, anche in termini di controllo. Nella fase poi di inserimento, è utile investire tempo ed energie nell’integrazione tra “nuovi manager” e “manager veterani”, facendo leva sui comitati e sui sistemi di reporting; prendere il tempo necessario per valutare i passi dei manager in azienda; investire in meccanismi di sviluppo (formazione, carriera, incentivi) che valorizzino i talenti; rispettare la delega (senza “abdicare”), facendo evolvere il proprio ruolo e concentrandosi progressivamente sulla gestione strategica; offrire riconoscimenti, economici e non, dei risultati raggiunti, garantendo la giusta visibilità ai manager. Il processo di ingresso di manager non familiari deve accompagnarsi ad un rafforzamento degli assetti organizzativi, riducendo tre fragilità spesso presenti nelle imprese familiari: il “sottodimensionamento” quantitativo e qualitativo rispetto alla complessità dell’azienda in termini di fatturato, mercati serviti, prodotti, canali distributivi etc.; l’ambiguità organizzativa, ossia l’assenza di formalizzazione o lo scollamento tra assetti formali e sostanziali; l’irrigidimento in termini di resistenza alla delega, al lavoro collegiale e all’inserimento di terzi. Il processo di managerializzazione delle aziende familiari è dunque un processo articolato che non riguarda solo l’inserimento di uno o più manager non familiari e che inizia dalla volontà della famiglia imprenditoriale di far crescere l’assetto organizzativo per cogliere sfide competitive sempre più impegnative.
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Articolo tratto da “Economy” di Novembre 2022