Il bitcoin perde con le crisi il ruolo di asset antagonista
La criptovaluta è entrata nei portafogli ed è venduta nelle fasi «risk off»
Nella notte di giovedì scorso, quando sono arrivate le prime notizie sull’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, non sono calate soltanto le Borse asiatiche. No! Anche un’altra opportunità d’investimento è rotolata giù. Quale? Il bitcoin. La criptovaluta regina è passata, pure riprendendosi un po’ nell’intrady, da oltre 37.000 dollari a poco più di 34.000 dollari. Non solo. Nel momento in cui – il giorno dopo -è sembrata esserci qualche apertura diplomatica rispetto alla guerra, il bitcoin è rimbalzato. Insieme all’azionario globale. Si obietterà: qual è la stranezza? Già nei mesi scorsi, ad esempio quando il presidente della Fed Jerome Powell ha mostrato più fermezza sul rialzo dei tassi, la cryptocurrency era scivolata. Per non parlare, poi, del capitombolo (similmente a tutte le altre Borse mondiali) nel marzo del 2020 in scia allo scoppio della pandemia. Insomma: si tratta di un film da tempo in programmazione. Vero! E, tuttavia, non può non sottolinearsi che quest’andamento stride con l’impostazione ideologica del bitcoin. La criptovaluta nasce quale sistema di pagamento alternativo («bisogna fidarci che le banche centrali non svalutino la moneta -scrive Satoshi Nakamoto-; ma la storia delle monete fiat e piena di brecce in questa fiducia»). In un’ottica che, in seguito, è divenuta prevalentemente anarco-capitalista. Certo: via via il bitcoin si è trasformato in asset d’investimento. E, però, la sua struttura socio-tecnologica (dalla decentralizzazione fino al Proof of Work e all’halving) dovrebbe indurre il criptoasset (non a caso definito “oro digitale”) a muoversi in maniera diversa. Il che non accade.
Perché? Perché, paradossalmente, è vittima del suo successo. Negli ultimi anni, da un lato, ha acquisito popolarità; dall’altro, si sono moltiplicati gli strumenti finanziari tradizionali per operare con esso. A fronte di questo contesto, entrando nei portafogli degli investitori tradizionali (sia istituzionali che retail), la criptovaluta regina è diventata sensibile alle strategie tradizionali di quest’ultimi. I quali non conoscono, o non seguono, i meccanismi peculiari del sistema socio-tecnologico, bensì quelli della finanza istituzionale. Quindi, nel momento in cui si entra in una fase di “risk off” (fuori dal rischio) il bitcoin viene venduto come tutti gli altri asset considerati più rischiosi.
«In realtà – precisa Federico Izzi, cofondatore di InsideW3B.com – la considerazione può valere sul breve periodo. Tuttavia, nel medio lungo, il bitcoin mantiene le sue peculiarità». In particolare «quella di essere un asset deflazionistico», che, negli ultimi anni, «è peraltro cresciuto ben più dell’oro». Già, l’oro. Analizzando il rapporto tra le quotazioni della criptovaluta e del lingotto, questo è molto salito negli anni. Il che conferma la sovraperfomance della criptocurrency. Questo, però, non contraddice la tesi di fondo. Forse, in futuro, la situazione cambierà. Per adesso, se si vuole vedere un’applicazione del bitcoin in linea con le sue aspirazioni iniziali, bisogna andare dalla parti per esempio di El Salvador.
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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 28/02/2022