Inflazione a due facce
di Francesco Ninfole
Ogni buon medico deve capire bene una malattia prima di decidere come curarla. In una situazione simile si trovano i banchieri centrali globali, alle prese con il rialzo dell’inflazione. Tutte le aree geografiche devono fare i conti con alcuni fattori comuni, come i prezzi dell’energia e i colli di bottiglia della produzione, ma la natura e l’entità dell’inflazione possono divergere. È il caso per esempio dell’Eurozona e degli Usa. Guardando più nel dettaglio i dati si capisce perché la Fed sia pronta a una stretta monetaria (in agenda ci sono tra 4 e 7 rialzi dei tassi quest’anno secondo gli analisti), mentre la Bce a marzo potrebbe annunciare la riduzione delle misure espansive e l’avvio della «normalizzazione», che potrebbe portare alla chiusura del Qe in autunno e a un rialzo dei tassi tra fine anno e inizio 2023.
Il balzo dell’inflazione è stato maggiore negli Usa, dove il dato è salito del 5,6% nel 2021 (fino al 7% di dicembre), mentre nell’Eurozona del 4,1% (fino al 5% di dicembre). La componente dei beni energetici ha pesato più nell’Eurozona (per circa metà del 5% totale) che per gli Stati Uniti (dove si è fermata a un terzo del 7% complessivo). «La maggior parte della differenza negli andamenti dell’inflazione complessiva è dovuta all’aumento dell’inflazione al netto dei beni energetici e alimentari, di gran lunga più marcato negli Stati Uniti (dove il livello di partenza era anche più elevato) rispetto all’area dell’euro», ha osservato il bollettino Bce. La componente core a dicembre è arrivata al 2,6% nell’Eurozona (+1,4% rispetto al livello pre-crisi), mentre negli Usa è salita fino al 5,5% (+3,1%). Negli Usa è stato più ampio l’effetto delle strozzature nella filiera produttiva, visibili soprattutto sui prezzi delle auto.
Per quanto riguarda le determinanti di fondo dell’inflazione, «il ciclo economico negli Stati Uniti si trova in una fase più avanzata rispetto all’area dell’euro e le tensioni sul mercato del lavoro statunitense sono aumentate, circostanza che ha iniziato a riflettersi in alcune pressioni al rialzo sui salari», ha indicato la Bce. Negli Stati Uniti il pil aveva già superato il livello pre-crisi nel secondo trimestre 2021, mentre nell’area euro è tornato sui livelli pre-crisi solo nel quarto trimestre dell’anno. Negli Usa il grado di tensione sul mercato del lavoro è aumentato «bruscamente» negli ultimi mesi e l’indice del costo del lavoro relativo ai dipendenti civili ha mostrato un incremento «relativamente consistente», ha rilevato Bce. Ciò contrasta con la situazione nell’Eurozona, dove finora la crescita salariale, misurata in base alle retribuzioni contrattuali o all’indice del costo del lavoro, è rimasta «piuttosto contenuta», secondo Francoforte.
Un ambito importante riguarda l’aspettativa sull’inflazione nei prossimi anni. Secondo le previsioni di gennaio di Consensus Economics, l’inflazione complessiva rimarrà elevata per la maggior parte del 2022 sia negli Stati Uniti sia nell’area dell’euro. Ma quella americana, che prima della pandemia aveva superato il 2%, dovrebbe rimanere al di sopra di tale percentuale per un periodo molto più lungo rispetto all’area dell’euro (si veda grafico in pagina). Nell’Eurozona è attesa dagli economisti al 3,1% e all’1,6% nel 2023, in linea con le proiezioni Bce di dicembre (3,2% nel 2022 e 1,8% nel 2023 e 2024). Negli Usa è più ampia l’incertezza: le previsioni degli analisti si collocano in un intervallo compreso tra l’1,9 e il 4% (tra 0,8 e 2,2% nell’area euro), con un solo previsore che indica un tasso di inflazione inferiore al 2%. Secondo Bce «questo livello più elevato di inflazione negli Usa può essere ricondotto a differenze rispetto all’area dell’euro in termini di capacità produttiva inutilizzata e grado di tensione sul mercato del lavoro, fonte di maggiori pressioni salariali negli Stati Uniti».
La direzione della politica monetaria è definita ed è quella di un’uscita (più o meno graduale) dalla fase pandemica. Dalle minute Fed è emerso che la banca centrale americana potrebbe accelerare le strette. Il prossimo passo, su cui gli analisti già puntano gli occhi, riguarda la riduzione del bilancio. La Bce resta più cauta, anche se negli ultimi giorni un maggior numero di membri del consiglio ha parlato di normalizzazione della politica monetaria, ovvero di una chiusura anticipata del Qe e di un primo rialzo dei tassi. Il governatore francese François Villeroy de Galhau ha indicato il terzo trimestre come termine possibile degli acquisti di titoli, ma ha suggerito di togliere il legame temporale diretto che impone di alzare i tassi subito dopo (i falchi vorrebbero partire quest’anno con le strette). Così la Bce avrebbe più flessibilità per adeguare i tassi in uno scenario ancora incerto sull’inflazione.
In tal senso il capoeconomista Philip Lane ha di fatto escluso il ritorno a un aumento dei prezzi attorno all’1%, come quello che si è verificato prima tra il 2014 e il 2019. Le attese sull’inflazione, ha aggiunto, non mostrano segnali di andare oltre il target del 2%, ma indicano una graduale stabilizzazione attorno a quel livello. A marzo le nuove proiezioni Bce chiariranno se l’1,8% atteso ora nel medio termine sarà portato al 2%. Ciò aprirebbe la strada alla fine delle misure espansive, anche se non a strette come quelle della Fed finalizzate a frenare il surriscaldamento dell’economia (che nell’Eurozona non c’è). È possibile che in questo quadro tornino sotto pressione i titoli di Stato dei Paesi più indebitati come l’Italia. Perciò Villeroy ha proposto di mantenere uno strumento da attivare in caso di crisi.
Di questi temi i membri del board discuteranno già in un consiglio informale (per la prima volta dopo molto tempo in persona) che si terrà a Parigi il 24 febbraio, il giorno prima di una riunione dei ministri finanziari europei. Non si prenderanno decisioni, ma con ogni probabilità si prepareranno i lavori per la riunione del 10 marzo. I banchieri centrali dovranno anche evitare il rischio di dosi eccessive delle medicine anti-carovita, che possono ostacolare la ripresa e il ritorno dell’inflazione all’obiettivo del 2% nel medio termine.
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Articolo tratto da “Milano Finanza” del 19/02/2022