L’inflazione Usa arriva al 7%
Il dato di dicembre sale rispetto al 6,8% di novembre e raggiunge i massimi dal 1982
di Francesco Ninfole
L’inflazione Usa ha toccato il 7% a dicembre, il livello più alto dal 1982. Il dato annuo, in aumento rispetto al 6,8% di novembre, è legato principalmente allo squilibrio tra domanda (stimolata in modo ingente anche dal governo) e offerta (che risente dei vincoli alla produzione legati alla pandemia). Questo fattore resta visibile per esempio nei prezzi delle auto usate (+37,3%). Anche l’inflazione core, cioè al netto dei beni energetici e alimentari, è salita dal 4,9% di novembre al 5,5%, il massimo dal 1991. La natura strutturale del carovita americano si osserva anche nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è sceso al 3,9% dal 4,2% di novembre.
I mercati attendevano un’inflazione attorno al 7%. Ieri gli indici a Wall Street erano poco sopra la parità a pochi minuti dalla chiusura. Milano ha chiuso in rialzo dello 0,65%, Francoforte dello 0,43%, Parigi dello 0,75%. Jerome Powell, presidente della Fed, ha assicurato martedì che «se l’inflazione rimarrà su alti livelli più del previsto e dovremo aumentare di più i tassi nel tempo, lo faremo». I membri Fed prevedono in media tre strette quest’anno, ma alcuni analisti ne attendono quattro. Il primo aumento potrebbe essere a marzo, quando finiranno gli acquisti di titoli. Powell ha evidenziato che il problema delle strozzature nell’offerta dovrebbe diminuire quest’anno, ma potrebbe aumentare la parte di inflazione legata ai salari. «Potremmo essere vicini al picco di inflazione, ma il rischio è che rimanga alta più a lungo e potremmo assistere a una risposta più aggressiva da parte della Fed», ha rilevato James Knightley, chief international economist di Ing.
L’inflazione è alta anche nell’Eurozona (5% a dicembre), ma la sua natura è meno strutturale e più temporanea rispetto a quella americana. «Nei valori nominali la situazione può apparire simile a quella degli Usa, ma in realtà è piuttosto diversa», ha osservato ieri Arnaud Marès, capo economista per l’Europa di Citi, ricordando che nell’area euro c’è ancora una bassa domanda aggregata. Per Marès è più difficile nell’Eurozona un aumento dei salari che renda duratura l’inflazione. Così di fatto si inverte il rapporto di causa: mentre negli Usa una forte domanda fa aumentare il carovita, nell’Eurozona l’alta inflazione non accompagnata da un significativo aumento dei salari riduce potere d’acquisto e consumi e quindi alla fine abbassa la domanda. «È più probabile che in Europa l’inflazione nel medio termine torni allo scenario pre-pandemia piuttosto che resti ai livelli attuali», ha detto Marès. «Per raggiungere il target di inflazione della banca centrale occorre chiudere il gap nella domanda e per questo servirebbero ancora stimoli fiscali, che però non sono semplici», ha rilevato, dato che i bilanci pubblici sono stati intaccati dalla pandemia e i governi nel 2022 saranno meno sostenuti dalla Bce. L’economista non è convinto che i consumi ripartiranno in modo rilevante e vede rischi per una crescita inferiore alle previsioni. «I rischi di fiscal dominance sono ampiamente sovrastimati», ha aggiunto, facendo notare le banche centrali non devono essere obbligate a sostenere i governi, ma devono farlo quando è necessario per aumentare il pil e l’inflazione. Per Marès la Bce non dovrebbe prendere misure restrittive per combattere il recente aumento del carovita, anche se il tapering è già iniziato. A Francoforte ci sono due gruppi di banchieri centrali, ha osservato l’economista: quelli più orientati al gap della domanda, tra cui il membro del comitato esecutivo Fabio Panetta, e quelli che temono impennate sui prezzi, tra cui l’altro membro Isabel Schnabel. Il board sembra indirizzato verso posizioni più conservative, secondo Marès. Per Citi l’inflazione nell’Eurozona salirà quest’anno al 3,7%, ma scenderà all’1,6% (sotto l’obiettivo Bce del 2%) nel 2023.
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Articolo tratto da “Milano Finanza” del 13/01/2022