Tassi. L’atteggiamento aggressivo della Fed e l’euro debole mettono alle strette la Bce

Giovedì si riunisce il board a Francoforte e il tema inflazione resta in primo piano

Il forte rialzo del dollaro Usa con l’euro sceso sotto l’area di 1,12 sono la conferma più plastica che il meeting della Fed di mercoledì scorso ha superato le previsioni. Il mercato si attendeva un atteggiamento più risoluto della banca centrale americana sull’inflazione, balzata ai massimi da 40 anni, ma le parole di Powell sono andate oltre, evidenziano un forte timore sui rischi di una spirale inflazionistica strutturale alimentata anche dal caro-salari. L’azione della Fed non si limiterà ai tassi. «Gli acquisti di asset – sottolinea Nicolas Forest, global head of fixed income di Candriam – si fermeranno all’inizio di marzo, come previsto, e una riduzione del bilancio, attualmente pari a quasi 9.000 miliardi di dollari, è prevista dopo il primo aumento dei tassi. In questo contesto, ci attendiamo 4 rialzi chiave dei tassi e riteniamo che la riduzione del bilancio dovrebbe portare a un aumento dei tassi reali statunitensi di quasi 50 punti».

Nel suo secondo mandato, Powell ha aperto le danze della stretta monetaria con una chiara missione: persuadere gli investitori e i consumatori statunitensi che l’inflazione può e deve essere riportata sotto controllo. Bisognerà capire a quella prezzo questo può accadere. Intanto la curva dei rendimenti si è appiattita dopo l’ultimo meeting della Fed: il balzo del rendimento a 2 anni ha fatto da contraltare a una frenata del decennale e quindi i rischi di un rallentamento economico nel medio termine non sono da escludere. Questo ovviamente potrebbe cambiare le carte in tavola.

Giovedì prossimo si riunisce intanto board della Bce. Negli ultimi giorni molti osservatori hanno definito questo incontro come interlocutorio. Dovrebbe essere confermato l’orientamento di un’inflazione transitoria con una politica monetaria estremamente accomodante. Il divario con gli Usa si amplifica a questo punto: la conferma arriva dal cambio ma anche dal divario del rendimento del Bund a due anni e del Treasury a due anni, termometri delle scelte di politica monetaria. L’indebolimento dell’euro rischia di aumentare la pressione inflattiva a fronte delle materie prime che restano sugli scudi con il petrolio che si muove sui massimi pluriennali, sopra 80 dollari al barile, non curante del rialzo del biglietto verde. Tutti elementi che non agevolano l’azione ultraccomodante della Bce, anche perché all’interno del board già in passato era cominciato a montare qualche dissenso.

La fiammata dei prezzi in Europa al momento è meno esplosiva di quella Usa. Ma quanto potrà durare? «Abbiamo assistito – spiega Roberto Rossignoli, portfolio manager Moneyfarm – ad un aumento dei prezzi e le problematiche relative al costo dell’energia si stanno facendo sentire. Tuttavia, nel vecchio continente l’inflazione stimata per il 2021 è pari al 2,6%, quindi ben al di sotto del Cpi americano. Il consensus degli analisti punta a una crescita dei prezzi al 3.1% per il 2022 con una riduzione sotto il target del 2% già a partire dal 2023».

Non c’è dubbio poi che le decisioni della Bce devono far fronte a un’eterogeneità economica e politica molto diversa da quella degli Usa, con l’Europa periferica e centrale che crescono a due velocità diverse. Le parole di dicembre della Bce hanno forzatamente mostrato una flessibilità molto maggiore di quella della Fed.

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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 29/01/2022