Trappola di Tucidide per il nuovo mondo cino-globalizzato
Tra storia e futuro. I mutati equilibri internazionali dicono che l’influenza di Pechino crescerà sempre di più. E da Harvard spiegano che lo storico greco, parlando di Atene e Sparta, prefigura un possibile scenario
di Paolo Bricco
La globalizzazione è cambiata con l’ingresso della Cina nel Wto nel 2001. Gli equilibri internazionali hanno componenti economiche e tecnologiche, politiche e culturali. Alcune sono evidenti e di rottura, altre sono carsiche e non percepibili ad occhio nudo. Tutte, in tempo di pace, sono di lungo periodo. E, poi, all’improvviso c’è la guerra che, con la sua forza dirompente, muta il corso della storia. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La tensione prebellica a Taiwan fra la Cina e gli Stati Uniti. Vale nel mondo moderno. Valeva nel mondo antico.
Scrive Tucidide nel primo libro della Guerra del Peloponneso, analizzando la genesi dello scontro fra Atene e Sparta nel V sec. a.C. per il predominio nella Grecia classica: «La guerra del Peloponneso la iniziarono gli Ateniesi e i Peloponnesiaci rompendo il patto trentennale che essi stessi avevano stabilito. Sui motivi per cui lo ruppero, credo che il motivo più vero, ma meno presente nei discorsi pubblici, fu che la crescente grandezza degli Ateniesi e la paura che ne derivò agli Spartani resero necessaria la scelta della guerra».
Tucidide a Taiwan
Pochi giorni fa l’esercito e la marina di Pechino hanno simulato una invasione di Taiwan, dopo la visita della speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi. Gli intellettuali dell’Harvard Kennedy School’s Belfer Center for Science and International Affairs hanno analizzato negli ultimi anni la “Thucydides’ Trap”, la “trappola di Tucidide”, la formula su cui insiste il loro caposcuola, il politologo Graham T. Allison. Adottando il punto di vista primitivo di Tucidide e trasferendolo nella modernità più piena, la Cina è «Atene con la sua crescente grandezza» e gli Stati Uniti sono «Sparta con la sua crescente paura».
Al di là del suggestivo parallelismo, la Cina ha compiuto un mutamento radicale della sua interpretazione della globalizzazione. L’ascesa cinese nei nuovi equilibri della globalizzazione è stata non tanto – o non soltanto – quantitativa, ma gerarchica. Il sottostante manifatturiero e finanziario, strategico e commerciale è del tutto diverso rispetto a vent’anni fa.
Gli equilibri mutati
Secondo le elaborazioni su dati CEPII-BACI, fra il 2000 e il 2018 la quota del commercio mondiale in capo alla Cina è salita dal 5% al 14,1%; allo stesso tempo, l’America è scesa dal 23,3% al 16,9% e l’Europa dal 42,5% al 38,1 per cento. La stessa tendenza riguarda i beni manifatturieri: Cina in crescita dal 5,5% al 16,2%, America in contrazione dal 23,2% al 15,7% ed Europa in calo dal 45% al 41,3 per cento. Ma, soprattutto, appare significativa la dinamica dei beni intermedi, che per la loro natura rappresentano i sommovimenti più profondi dell’economia internazionale, al punto di incrocio fra i flussi di merci e le piattaforme produttive internazionali: la Cina è salita da una quota del 3,4% ad una quota del 12,9%, mentre gli Stati Uniti sono scesi dal 24,5% al 16,1% e l’Europa è calata dal 43,3% al 38,9 per cento.
Questa metamorfosi della struttura del commercio e dell’industriale internazionale è stata scandita – mentre l’Occidente sperimentava meccanismi endogeni debilitanti come il crac dei mutui subprime, il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e la crisi dei debiti sovrani nel 2010 e nel 2011 – dalle politiche industriali ultra-dirigiste determinate dal Partito Comunista Cinese nelle biotecnologie, nell’informatica, nell’intelligenza artificiale e nella meccatronica. Il tutto secondo un doppio filo rosso: insediarsi su frontiere tecnologiche e non essere più al servizio dell’industria occidentale con dumping da minore costo del lavoro e da minore rispetto dell’ambiente, come è stato fino agli anni 90.
In una transizione tanto delicata – prima ancora che arrivassero shock come la pandemia, la guerra in Ucraina e la crisi di Taiwan – la Cina, che peraltro si sta misurando con un modello interno segnato da crescenti diseguaglianze e da “bachi” sistemici negli investimenti immobiliari e nel sistema bancario, ha provato all’esterno – sullo scacchiere geopolitico e geoeconomico – a costruire un sistema di relazioni cauto nella forma e aggressivo nella sostanza. E la sua leadership ha mostrato di avere letto Tucidide già dieci anni fa.
Tucidide a Seattle
Il presidente cinese Xi Jinping, segretario generale del Partito Comunista Cinese e presidente della Commissione Militare Centrale dal 2012 e presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 2013, ha pronunciato a Seattle il 22 settembre 2015 un discorso politico sui legami Cina-USA alla presenza, fra gli altri, di Henry Kissinger: «In primo luogo, dobbiamo leggere correttamente la strategia dell’altro. Costruire un nuovo modello di relazione tra i principali Paesi con gli Stati Uniti caratterizzato da non conflitto, da rispetto reciproco e cooperazione vantaggiosa per tutti è la priorità della politica estera cinese. Vogliamo approfondire la comprensione reciproca con gli Stati Uniti sull’orientamento strategico e sul percorso di sviluppo reciproci. Vogliamo vedere più comprensione e fiducia, meno estraneità e sospetto, al fine di prevenire incomprensioni e calcoli errati. Dovremmo basare rigorosamente il nostro giudizio sui fatti, per non diventare vittime di dicerie, paranoie o pregiudizi autoimposti. Non esiste al mondo la cosiddetta trappola di Tucidide. Ma se i principali Paesi dovessero più e più volte commettere errori di calcolo strategico, potrebbero creare tali trappole per sé stessi».
Il fenomeno interessante è sia politico-culturale-ideologico sia statistico-commerciale-industriale. Dal primo punto di vista, nel quattordicesimo piano quinquennale – valido dal 2021 al 2025 – lo sviluppo dei consumi interni fanno il paio con una apertura selettiva di investimenti e di nuovi flussi commerciali in entrata e in uscita, in particolare con partner asiatici.
La calibratura asiatica e l’ascesa cinese
Questa calibratura asiatica segue, peraltro, ad una precisa conformazione della fisiologia economica interna. Sotto il profilo statistico-commerciale-industriale, a fronte della maggiore integrazione strategica nell’economia internazionale dimostrata dall’incremento della sua quota di commercio estero mondiale dei beni intermedi, la Cina ha allo stesso tempo costruito un modello di generazione di valore aggiunto più compatto e coeso.
Mentre, secondo la banca dati TiVA di Oecd, dal 2000 al 2018 il valore aggiunto della manifattura europea generato per via endogena dall’Europa stessa è sceso dall’81% al 71%, la Cina – a fronte di una crescita in valori assoluti molto significativa – è rimasta stabile al 75%: tre quarti del valore aggiunto manifatturiero cinese è sempre espresso dalla manifattura cinese. E, questo, nonostante il radicale riposizionamento della Cina, che da fabbrica a basso costo del mondo è diventata, dal 2001, una cosa assai diversa: un sistema industriale in grado di competere sulle frontiere tecnologiche, alimentato da una cospicua domanda pubblica interna, capace di concentrare risorse finanziarie su progetti di medio e di lungo periodo.
Secondo l’Oecd, fra il 2008 e il 2018 il valore aggiunto di origine straniera contenuto nell’export cinese è sceso dal 22% al 17 per cento. Il valore aggiunto di origine straniero contenuto nell’Ict e nell’elettronica cinesi è calato dal 35% al 27%: questo significa che i processi tecno-manifatturieri intermedi sono stati garantiti dal sistema industriale cinese. Il quale fa cose sofisticate che, prima, non era in grado di fare.
La stessa dinamica si osserva da un altro punto di vista: la quota di valore aggiunto domestico cinese determinato dalla domanda finale straniera è calata dal 23,7% al 14,4 per cento. La Cina, dunque, adesso autoalimenta la sua crescita.
Questo inspessimento cinese fa il paio anche con la crescente integrazione dell’area asiatica: per l’Asian Development Bank, tutti i Paesi asiatici hanno una percentuale di output co-generato insieme agli altri partner continentali pari ad almeno il 50 per cento. Un’Asia in cui la leadership funzionale è, sempre più, cinese.
La Cina non è l’URSS
Il mito del decoupling – la duplicazione delle catene globali del valore, con una matrice occidentale e con una matrice cinese – è appunto un mito. L’integrazione fra Occidente e Oriente è tale da non prefigurare un ritorno alla divisione delle catene globali del valore della guerra fredda, quando esistevano due sistemi alternativi imperniati il primo sull’occidente americano e il secondo sul comunismo sovietico. Ma, di sicuro, esiste un riorientamento degli equilibri, con la Cina nella funzione di organizzatrice dei cicli produttivi in particolare asiatici, tanto più adesso con la pandemia che ha costretto il mondo a sperimentare la virtù della vicinanza (nella logistica) e la qualità della prossimità (della domanda).
La guerra nel Peloponneso fra Atene e Sparta non si svolge solo in Grecia. Un altro teatro è la Sicilia. Scrive Tucidide: «Gli ateniesi volevano impedire che, dalla Sicilia, fosse importato grano nel Peloponneso». La Cina, dopo la visita di Nancy Pelosi, ha operato restrizioni nell’export verso Taiwan della sabbia che serve per fabbricare i microchip, dove la Tsmc ha la leadership manifatturiera quantitativa globale. A Taiwan, secondo una analisi della americana Semiconductor Industry Association, si produce (in quantità) il 20% dei chip mondiali e – soprattutto – si realizza il 90% di quelli più avanzati, con cui funzionano i computer e i satelliti, i telefonini e le automobili, i laser e i frigoriferi.
In guerra e in pace, nel mondo della nuova globalizzazione l’influenza della Cina è strutturalmente crescente.
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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 17/08/2022