Wall Street, scivolata senza fine S&P a un passo dalla fase orso
Focus sui listini Usa. Il Nasdaq da aprile in «bear market», ora l’indice principale segna -17% dai massimi Se anche questa settimana si chiuderà in negativo, sarà la sesta di fila: un filotto che non avveniva dal 1940
Dalle parti di Wall Street si sente puzza di “bear market”. Non tanto per il tecnologico Nasdaq, che con un passivo del 27% dai massimi di novembre 2021 vi è già entrato “di diritto” a metà aprile. Quanto per il re degli indici azionari, l’S&p 500. Ieri ha faticato a mantenere la soglia dei 4.000 punti accumulando un ribasso superiore al 2% che a conti fatti porta il degrado da quel record a 4.818 di punti del 2 gennaio a -17%. Siamo pertanto vicini alla soglia spartiacque del -20%, quella che tecnicamente separa una correzione dall’ingresso in un “mercato orso”.
Quel che colpisce è la costanza dei recenti ribassi. Se anche la settimana appena avviata dovesse chiudersi con il segno rosso sarebbe la sesta di fila in retromarcia, come non accadeva dal 1940. Cali che peraltro avvengono nel mese di maggio che storicamente è importante, sul fronte dei dividendi, anche per le aziende statunitensi. Segno che in questa fase il de-risking, al momento ordinato e senza panico, sta prevalendo ad altre logiche di investimento, compresa quello dello stacco-cedola.
Gli investitori azionari non stanno dormendo sono tranquilli per vari motivi. A cominciare dai tassi reali, tornati in territorio positivo dopo due anni e mezzo vissuti “sott’acqua”. Il tutto, condito da una velocità impressionante. Basti pensare che il 7 marzo i tassi reali Usa a 10 anni viaggiavano a -114 punti base, mentre ieri erano a quota 22. Rendimenti reali positivi penalizzano l’investimento nel mercato azionario perché stanno a significare che le obbligazioni iniziano ad offrire del valore ai portafogli anziché a reprimerli finanziariamente. «I tassi reali Usa a 10 anni sono tornati positivi perché la parte lunga della curva sta soffrendo, molto più dei titoli a 2 anni e delle aspettative di inflazione a lungo periodo, della ritirata della liquidità della Fed, il cosiddetto “quantitative tightening” – spiega Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte -. Di conseguenza i rendimenti decennali hanno superato la break-even inflation e questo sta penalizzando Wall Street».
Altro fattore di sofferenza, più prospettico che attuale anche se nella seduta di ieri potrebbe essersi intravista un’avvisaglia, riguarda la possibile rotazione dei gestori dal mercato azionario (penalizzato dal rischio di rallentamento dell’economia e quindi di impatto potenziale sugli utili attesi) verso quello obbligazionario (che sta già scontando ai tassi attuali una Fed molto aggressiva). Non avendo la presunzione di centrare l’ingresso nel punto più basso del trend, molti istituzionali potrebbero valutare alle condizioni attuali, con il T-note oltre il 3%, l’avvio di un piano di accumulo, magari puntando sull’ipotesi che fra un po’ l’inflazione potrà dare segnali di picco. Su questo fronte sarà decisivo il dato sui prezzi al consumo negli Usa relativo al mese di aprile che verrà comunicato domani. Si scontrerà con il 4,2% di inflazione dell’aprile 2021, e quindi entrerà in scena il cosiddetto “effetto base”, il che vuol dire che nei mesi a venire sarà sempre più difficile per la “nuova inflazione” continuare a mantenere percentuali elevate, perché si scontrerà con una “vecchia” già robusta.
A conti fatti con la discesa di ieri, e considerando un earning per share stimato a 12 mesi di 235 dollari, le valutazioni dell’S&P 500 sono scese a 17 volte gli utili. È la prima volta dall’aprile del 2020 che il prezzo/utili attesi scende sotto 18.
Molti si chiedono quale potrebbe essere il “bottom” del mercato azionario che tanto sta assomigliando a un coltello che cade nelle ultime settimane. A parità di utili attesi, se il moltiplicatore prezzo/utili dovesse scendere da 17 a 15 (quindi scendendo anche di un po’ rispetto alla media degli ultimi 20 anni, pari a 15,5 volte) il valore dell’S&P 500 si dovrebbe aggirare intorno ai 3.500-3.600 punti. È uno degli scenari peggiori ipotizzati su alcuni report, come l’ultimo di Bofa Merrill Lynch. Equivarrebbe a un calo ulteriore del 12,5%. Difficile dirlo ma a quel punto certo che Wall Street entrerebbe difatti in un mercato orso. La storia insegna che occorre del tempo per risalire la china.
La tabella a sinistra mostra tutte le volte in cui nell’ultimo secolo l’S&P500 ha dovuto affrontare un mercato ribassista con i rispettivi drawdown da digerire e i tempi di rientro. Il peggiore è quel -86% generato tra il 1929 e il 1932, recuperato solo cinque anni dopo. Senza andare troppo indietro nel tempo, il -56% accusato tra il 2007 e il 2009 (ultima crisi finaziaria globale) fu recuperato nel 2013. Come andrà questa volta? Non possiamo dirlo, anche perché, nonostante vi sia vicina, non si può affermare con certezza che Wall Street entrerà in un mercato orso. Domani, il dato sull’inflazione potrebbe rappresentare in questo senso l’ultimo bivio.
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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 10/05/2022