Bond record: 70mila miliardi con l’incognita inflazione

 Un mare di debiti. Il valore delle obbligazioni in circolazione è pari a tre quarti del Pil globale Boom di acquisti anche se i prezzi corrono

«L’inflazione è alta ed è causa di preoccupazione ma continuiamo a credere che sia transitoria». È un mantra che il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, recita da tempo. E che ha ripetuto venerdì nel tanto atteso discorso di Jackson Hole. Parole rassicuranti per gli investitori, che sono tornati a comprare Treasury e altre obbligazioni con conseguente calo dei rendimenti. Nei prossimi mesi scopriremo se Powell avrà ragione o se invece (ci si augura di no) l’inflazione scapperà di mano alle banche centrali. Resta il fatto che la fotografia attuale – eredità della pandemia e dei lockdown – indica che negli Stati Uniti l’inflazione viaggia al 5,4%, come non accadeva dal 2008, e soprattutto che quella core (depurata cioè delle componenti più volatili, come alimentari ed energia) ha toccato a giugno il 4,3% annuo, il massimo dal 1992. Tassi dei titoli di Stato e inflazione di solito hanno un andamento correlato, proprio perché nel rendimento dei bond è incorporata, oltre al rischio emittente, anche la componente inflattiva. Ma in questa fase l’inflazione Usa si è totalmente sganciata dall’andamento delle obbligazioni, replicando graficamente uno schema visto prima d’ora solo negli anni ’70 quando la crisi petrolifera fece balzare del 300% il prezzo del greggio.

Va detto che l’inflazione corre un po’ dappertutto. Persino nell’Eurozona – da anni alle prese con il rischio contrario di “giapponesizzazione” di tassi ed economia – ha superato il mese scorso la soglia di attenzione del 2% portandosi al 2,2%. Ma mentre i prezzi al consumo corrono gli investitori anziché vendere le obbligazioni, riportando i tassi più in alto in armonia con il crescente rischio inflattivo, li acquistano. Ce lo dice il dato sulla capitalizzazione dei bond globali, sia governativi che corporate, che ormai sfiora la soglia dei 70mila miliardi di dollari, pari a circa tre quarti del Prodotto interno lordo globale (che nel 2020 è stato di 84mila miliardi, mentre per il 2021 è stimato intorno a 93mila miliardi): un dato senza precedenti per questa classe di investimento, aggravato dalla quota di bond che viaggiano a tassi negativi (chi li compra paga un interesse al debitore anziché riceverlo) che si attesta intorno ai 17mila miliardi. Nel 2010 il valore delle obbligazioni in circolazione era 35mila miliardi, pari al 53% del Pil.

Il Covid – stimolando l’emissione di nuovo debito con acquisti foraggiati dalle banche centrali, i cui bilanci hanno superato 30mila miliardi di dollari – ha accentuato contraddizioni che il mondo finanziario stava già sperimentando. E che adesso rischiano di trasformarsi in pericolose bolle. La grande domanda è cosa accadrà alla montagna di bond in circolazione se e quando le principali banche centrali inizieranno a rialzare i tassi. Su questo fronte siamo sul filo del rasoio. Non a caso Powell due giorni fa ha comprato altro tempo indicando che, anche se la Fed avvierà entro fine anno il tapering (il piano di riduzione degli stimoli monetari), questo non implica un automatico rialzo dei tassi. Si temporeggia nella speranza che l’economia si riprenda e metta una toppa alle bolle finanziarie che sono state create. Gran parte della partita si giocherà proprio sul trend dell’inflazione: sarà davvero transitoria come professano i banchieri centrali?

In un recente report intitolato «Rientro nell’orbita» Mark Haefele, chief investment officer di global wealth management di Ubs, scrive che «l’inflazione diminuirà nel corso del 2022 e la crescita economica si manterrà robusta». La pensa così anche la maggioranza degli investitori, dato che osservando i tassi a lungo periodo – stime di inflazione a 5 anni e per i successivi 5 – il dato si ammorbidisce al 2,3% negli Usa e all’1,7% nell’Eurozona. Ma le incognite restano. E viaggiano di pari passo con le incertezze legate alla pandemia e ai numerosi colli di bottiglia che ha generato nelle catene di rifornimento. Secondo indiscrezioni circolate nei giorni scorsi, il maggior produttore mondiale di chip, la taiwanese Tsmc, con una quota del 65% del mercato, intende aumentare i prezzi fino al 20%. È uno dei motivi per cui anche all’interno della Fed c’è spaccatura sul tema: per il governatore della Fed di Philadelphia, Patrick Harker, «ci sono evidenze che l’inflazione possa perdurare più a lungo delle attuali stime». Rick Rieder, capo degli investimenti di BlackRock, ha esortato la banca centrale Usa a ridurre gli stimoli quanto prima: «È ora di iniziare, la liquidità è troppa».

Non preoccupano solo i prezzi al consumo. Il segnale d’allarme arriva dai prezzi alla produzione, con l’indice in rialzo del 7,8% negli Usa, del 9% in Cina e del 10,2% nell’Eurozona. Le imprese potranno evitare di scaricare i costi extra sui consumatori? E che ne sarà, nel caso, dei loro utili? Domande micro che rimbalzano sullo scenario macro e poi a cascata sui mercati finanziari.

Va detto che l’inflazione è come il colesterolo. C’è quella buona (da domanda) e quella cattiva (da offerta). Questo lineare schema di pensiero – che da tempo aiuta gli economisti a filtrare i dati sui prezzi dei beni e servizi – è diventato più complesso nell’era Covid. La pandemia con i primi lockdown ha mandato KO tanto la domanda quanto l’offerta, creando uno scenario paragonabile a una guerra mondiale. In seguito le riaperture a macchia di leopardo hanno creato un forte disallineamento tra domanda (tornata tonica) e offerta, messa al palo dalla mancanza di scorte in magazzino e da problemi logistici e di produzione legati allo sviluppo di nuovi focolai e varianti del virus. Sono questi enormi colli di bottiglia creatisi in alcuni settori chiave (come quello dei chip, da cui dipende non solo la produzione di computer e smartphone ma anche di auto e molti altri beni) a creare i disagi più grandi e a lasciare incertezze sulla ripresa e sull’inflazione che verrà. E poi c’è il tema dei vaccini.

«Siamo di fronte a una doppia situazione sanitaria tra i Paesi occidentali che procedono spediti con le vaccinazioni, e quindi con l’economia in piena riapertura, e i Paesi orientali, che hanno enormi difficoltà di accesso ai vaccini, in cui si trovano però molte unità di produzione, elemento fondamentale della supply chain – spiega Yannick Lopez, head of fixed income di Ofi asset management –. Questo sta facendo salire i prezzi. Al momento queste tensioni sono viste in gran parte come temporanee. Tuttavia, la vaccinazione a due livelli può comportare il rischio di successive ondate di varianti, con il pericolo di mettere l’economia occidentale in una modalità permamente di stop-and-go. Ciò porterebbe a una disorganizzazione globale della catena di rifornimento e manterrebbe per un periodo di tempo più lungo le pressioni inflazionistiche».

Il risultato è che si naviga a vista. Le rassicurazioni di Powell sulla transitorietà del fenomeno servono a spegnere le improvvise fiammate di volatilità sulle Borse. Ma per ora sono solo parole. Per i fatti bisognerà aspettare ancora qualche trimestre.

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Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 29/08/2021