La Fed vende i bond aziendali: prima retromarcia sugli stimoli

La mossa. Pur non legando la decisione agli interventi di politica monetaria, sui mercati la riduzione degli acquisti di bond è temuta. Nel mondo altri casi: in Australia, Canada e parzialmente in Inghilterra

di Morya Longo

In sordina, quando in Europa era notte e anche le Borse americane erano ormai chiuse, mercoledì la Federal Reserve Usa ha annunciato la prima piccola retromarcia della sua politica monetaria ultra-espansiva: dal 7 giugno inizierà poco per volta a rivendere sul mercato i bond aziendali e gli Etf che aveva comprato durante la pandemia. Si tratta di poca cosa, dato che – su un bilancio complessivo pari a 7.900 miliardi di dollari – la Fed detiene appena 5,2 miliardi di bond aziendali e 8,5 di Etf. Briciole insomma, se confrontate con la quantità di titoli di Stato e di mutui-bond che possiede e che continua a comprare a pieno ritmo. Ma quello che conta non è l’importo, risibile, quanto il messaggio: la Fed (pur dicendo che questa non è una decisione da leggere in relazione alla politica monetaria), muove un primo minimo passo per smontare la più piccola delle misure straordinarie varate durante il Covid.

Un primo passo che si accompagna a quelli di altre banche centrali: quella australiana dovrebbe iniziare a ridurre gli stimoli il mese prossimo, quella canadese ha già cominciato e quella inglese ha diminuito il ritmo degli acquisti settimanali di bond pur lasciando invariato l’ammontare del piano complessivo. La Bce resta invece super-espansiva. La ritirata di alcune banche centrali, quella che sui mercati viene chiamata con il termine «tapering», sembrerebbe dunque iniziare a farsi sentire nell’aria. Pur timidamente. Non è un caso che ieri le Borse siano rimaste deboli (almeno fino a quando l’accordo tra il presidente Biden e i Repubblicani sul piano infrastrutturale e sulla corporate tax non ha fatto risalire Wall Street): la ritirata delle banche centrali è infatti il peggior incubo dei mercati.

La marea si ritira?

Bene inteso: è ancora presto parlare di «tapering». La stessa Fed continua a comprare sul mercato ogni mese 80 miliardi di dollari di titoli di Stato e 40 miliardi di obbligazioni legate ai mutui, per un totale di 120 miliardi. Ma la decisione di mercoledì dà il senso di un cambio di passo con cui i mercati e l’economia dovranno presto o tardi confrontarsi. Anche perché a questa mossa hanno fatto eco le parole di un membro (pur non votante) della Fed, Patrick Harker: «Può essere arrivato il momento di iniziare a pensare al tapering».

Se sia opportuno o meno, il dibattito è aperto. Da un lato, in un contesto in cui le economie vengono riaperte e iniziano a correre, portando con sé anche una fiammata inflattiva, non ha probabilmente senso che le banche centrali continuino a pompare liquidità come se fossimo ancora in lockdown. Almeno negli Stati Uniti, dove anche ieri i dati sul mercato del lavoro hanno mostrato una buona ripresa. Dall’altro è anche vero – come sottolinea Gregorio de Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo – che «quando l’inflazione nasce da un aumento dei costi delle materie prime e non da una crescita dei consumi, come accade ora, ha poco senso un intervento delle banche centrali per spegnere la fiammata».

Il nodo del debito e dei mercati

Il problema, però, è un altro: che sia giusto o no, il rischio è che il contraccolpo di un eventuale «tapering» sull’economia e sui mercati possa in futuro essere serio. Nel mondo, il debito di imprese e Stati è cresciuto molto in questi anni di tassi a zero e di liquidità abbondante: ridurre gli stimoli monetari significa dunque rischiare di rendere insostenibili almeno alcuni di questi debiti. Sui mercati il rischio è analogo: anni di tassi a zero e di liquidità abbondante hanno creato una forte esuberanza. Che siano bolle o no, il dibattito è aperto. Di certo se la liquidità diminuisse troppo presto o troppo velocemente, il rischio che scoppino c’è.

Le Borse sono sui massimi storici in molte parti del mondo. I mercati obbligazionari hanno rendimenti a zero o in molti casi sotto zero. Situazioni senza precedenti nella storia. Anche i mercati immobiliari si stanno surriscaldando: secondo il Knight Frank’s Global House Price Index, a livello mondiale i prezzi delle case sono saliti negli ultimi 12 mesi del 7,3% (sprint che non si vedeva dal 2006). E negli Stati Uniti il balzo è stato del 13,2%, massimo dal dicembre 2005. Per non parlare dalla “leva” sui mercati finanziari: il debito contratto dagli investitori per comprare azioni o altri titoli è sui massimi, almeno per i dati (parziali) che sono noti. Ridurre le iniezioni di liquidità potrebbe dunque avere l’effetto dello spillo nel palloncino dei mercati.

Anche perché le Borse sembrerebbero avere invece bisogno di maggiore liquidità per sostenere le quotazioni attuali: lo dimostra il fatto che il rapporto tra l’indice S&P 500 di Wall Street e l’aggregato monetario M2 è tornato sui massimi visti, in passato, solo nel 2007-2008 (quando era maggiore), nel 2018 e a fine 2019. «Questo indicatore mostra quanta benzina monetaria c’è nel serbatorio dei mercati rispetto alla strada fatta, e ora ci dice che stanno andando in “riserva”», spiega Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte. Insomma, per continare a correre forse avrebbero bisogno di maggiori iniezioni, non dei primi timidi passi indietro.

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Fonte

Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” del 04/06/2021